Fine vita

La nostra esistenza sappiamo che ha un inizio ed avrà una fine.

Come si deve rispetto per la vita umana fin dal suo sorgere nel grembo materno, così le si deve lo stesso rispetto e la stessa tutela anche quando si arriva al traguardo della nostra vita terrena.

Sulla fine della vita dell’uomo c’è molto da dire, come per l’inizio.

Nell’attuale contesto storico il discorso sul “fine vita” si sta facendo sempre più acceso proprio perché sembrerebbe quasi che il venir meno delle forze fisiche, psichiche dell’uomo, cosa naturale della vita stessa, sia diventato qualcosa di “innaturale” da combattere piuttosto che da accettare ed accompagnare.
Una volta un uomo si riteneva morto quando il suo cuore non batteva più, ma ora non è più così. La scienza, la tecnica e la stessa medicina sono progredite. Sono arrivate a dei livelli che anni fa non si sarebbero potuti immaginare.

Oggi l’uomo vive più a lungo rispetto ai decenni precedenti. La medicina ha fatto passi enormi per poter permettere una vita migliore. Si possono curare molte malattie che prima portavano inesorabilmente alla morte, o se non si riesce a curarle ci sono sia farmaci che macchinari che possono aiutare a conviverci, cercando di farlo nel miglior modo possibile. Certo stare in un letto, attaccato ad una macchina che permette di respirare, di sicuro non è una situazione piacevole ma, per esempio, permette di vivere comunque nonostante una malattia abbia aggredito l’organismo.

Oggi possiamo dire che abbiamo: nuovi farmaci, nuove terapie, macchine che permettono di respirare, far battere il cuore, ecc…. E tutto ciò comporta positivamente che nell’ambito della medicina e chirurgia ci sia la possibilità di poter curare meglio, vivere e/o convivere con determinate patologie che prima erano considerate fatali per la stessa vita dell’uomo.

Potremmo chiederci adesso: ma dove sarebbe il problema?

Purtroppo il “problema” subentra il momento stesso in cui ci si trova davanti ad una malattia in fase terminale, ad uno stato di coma irreversibile (morte cerebrale) o davanti ad una patologia in stato avanzato irreversibile. Sono due le pratiche da evitare in queste situazioni così delicate: l’accanimento terapeutico e l’eutanasia. Non è certo semplice stabilire quando smettere di usare dei farmaci curativi, altrimenti si sfocia in “accanimento terapeutico” e quando interrompendoli si potrebbe causare la morte del paziente e quindi, anche se involontariamente, provocare l’eutanasia.

Quando per il paziente lo stato di malattia è irreversibile (nel senso che inevitabilmente porterà alla morte) allora dovrebbe essere applicato il “Protocollo di accompagnamento alla morte”, con abbandono di tutte le terapie curative che porterebbero solo sofferenze ulteriori. Tale “protocollo” consiste nella somministrazione di farmaci che alleviano i dolori del paziente (non lo curano) e lo accompagnano al termine dei suo cammino terreno cercando di evitargli il più possibile sofferenze fisiche e psichiche. La persona in tale situazione morirà “naturalmente”. La sua vita non dipenderà se non dal decorso della sua malattia e, come credenti, dalla volontà del Creatore che deciderà Lui quando chiamarla a sé.

Sono tre i principali criteri di accertamento medico della morte: criterio anatomico (devastazione traumatica del corpo); criterio cardiocircolatorio (arresto cardiaco prolungato); criterio neurologico (morte cerebrale). Quando si verifica uno di questi tre la persona viene considerata “morta”

(continua)

Adele Caramico Stenta

(pubblicato su “Amici di Gesù Crocifisso”, n. 5, settembre-ottobre 2019)